domenica 25 aprile 2010

Un Destino Già Scritto

Ecco un racconto che ho già pubblicato su un forum, ma, visto che questo è il mio nuovo spazio personale, lo posto anche qui :) Baci


UN DESTINO GIA’ SCRITTO
Quando mi svegliai, due uomini col camice azzurro mi afferrarono dai polsi e mi costrinsero a camminare. Non era un giorno come gli altri. Non era l’ora dell’allenamento, né quella delle analisi. Dove mi stavano portando? I miei fratelli erano ancora sospesi nelle loro capsule di liquido amniotico sintetico, i loro ritmi regolari. Cosa non andava in me? Era arrivato il momento? Ero libera? Una marea di emozioni mi travolse e mi frastornò come un’onda sulla scogliera. Un misto tra panico e frenesia. O era la sua ora... o la mia. I due uomini continuarono a camminare silenziosi, io li seguivo come un cagnolino. Quel corridoio l’avevo percorso migliaia di volte. Eppure non riuscivo a sgomberare la mente.
«Dove mi portate?» azzardai, con tono distaccato. Mostrare emozioni in quel momento sarebbe stato forse disdicevole.
«Analisi» si limitò a rispondere uno dei due. Non mi guardò nemmeno negli occhi. Ma a questo ero abituata. I medici non danno mai molta confidenza ai Cloni. L’unico sguardo gentile che ricevevo ogni giorno era quello di Maurice, il mio allenatore. E’ sempre stato molto premuroso con me, forse anche troppo. Sono sempre stata in forma grazie a lui. Come d’altronde anche i miei fratelli. A metà corridoio i due incamiciati si bloccarono davanti a una porta d’acciaio e aprirono i due lucchetti che la inchiodavano al muro. Non ero mai entrata lì dentro. Ebbi un tuffo al cuore. Non sapevo se essere curiosa o spaventata a morte. Forse entrambe le cose. Scendemmo una lunga rampa di scale. Poi arrivammo. Il dottor Corin fece un cenno ai due e mi si avvicinò.
«Mira330Z, la tua Originaria ha avuto un infarto». Per la prima volta nella mia vita vidi i suoi occhi fissi nei miei.
«Ha bisogno di un trapianto di cuore. È il tuo momento». Rimasi di sasso. Ma, dopotutto, me l’aspettavo. Questo era il nostro destino, la nostra missione. C’è chi, più fortunato, ottiene la libertà dopo la morte del suo Originario, chi deve salvargli la pelle. Siamo solo pezzi di ricambio con una flebile speranza di vita. Ma in fin dei conti, che potevo perdermi? La mia esistenza era quella: Galleggiare in una capsula di liquido amniotico appartenente a una madre mai esistita. Che cosa avevo da rimpiangere?

I miei fratelli non erano come me. Loro neanche la sognavano, una vita. Dicevano fosse deplorevole da parte nostra augurarci la morte di qualcuno che esiste per volere della natura. Sì. Avevano ragione. Che ingenua ero stata. Maurice entrò nel laboratorio. Mi vide e mi sorrise debolmente.
«Dottore, la lasci a me, devo controllare il battito del cuore sotto sforzo...».
«Certamente Maurice, io vi aspetto qui».
Maurice mi prese la mano dolcemente e mi accompagnò alle scale da dove ero scesa poco prima. Quando fummo ormai a metà rampa, accelerò il passo.
«Mira, ascoltami bene, io adesso ti mostro l’uscita, tu corri e non fermarti fino a quando non ti cedono le gambe. Questo è l’indirizzo della famiglia della tua Originaria» m’infilò nella tasca della vestaglia un foglietto spiegazzato «Sei libera di andarci o no. Ora corri! Veloce!!» mi spinse via dalla porta-finestra del suo studio, guardandosi nervosamente alle spalle. Io non mi mossi.
«Perché lo fai, Maurice? Sono solo un Clone, vivo per questo. Sono nata da una siringa, non da una donna. E tu verrai licenziato».
Lui parve spazientirsi.
«Muoviti!! Non preoccuparti per me, dirò che sei fuggita. Tra mezz’ora darò l’allarme. Scappa!!». Non me lo feci ripetere ancora. Cominciai a correre più veloce che potevo. Le mie gambe volavano leggere. Potevo sentire il vento tra i capelli, il profumo del mondo. Correre non era mai stato così piacevole e significativo. Sino ad allora per me significava accendere il tapis-roulant e muovere le gambe a ritmo regolare, con delle ventose appiccicate al petto e alla fronte. Tutto qui. Fu solo quando le forze cominciarono ad abbandonarmi che mi accorsi di ciò che mi circondava. Fino a quel momento mi era sembrato di sfrecciare a occhi chiusi. Mi trovavo in un posto abbastanza buio, sotto i miei piedi il terreno era fatto di qualcosa di sbriciolabile, come un biscotto frantumato, e da esso si innalzavano dei grossi pali marroni, con alle estremità dei piccoli foglietti verdi. Avevo già visto quelle cose, Maurice ne teneva uno molto più piccolo in ufficio. Come si chiamavano? Ecco, bonsai. Degli enormi bonsai. Ne rimasi affascinata. Fuori allora era tutto più grande? Sentii delle voci allegre dietro di me. Quelle le riconobbi subito. Erano bambini. Mi avvicinai per poterli osservare, nascondendomi dietro un bonsai. I bambini correvano e saltavano su degli attrezzi ginnici molto diversi da quelli che conoscevo. E questo li divertiva. Rimasi ammaliata da quello spettacolo di voci e colori. Mi sedetti su quel pavimento morbido ed estrassi il foglietto dalla mia tasca. “via Manzoni 134c, famiglia Corsi”. Rimasi un attimo a pensare. Se fossi andata da loro mi avrebbero riportata dal dottore. Avrebbero dato il mio cuore a lei. Non potevo rischiare. Rimisi in tasca il biglietto e continuai a osservare la scena. Un bambino cadde da un curioso meccanismo dove si dondolava avanti e indietro e cominciò a piangere. Una donna corse immediatamente verso di lui e lo sollevò da terra accarezzandogli la testa. Il bambino, tra le braccia della donna si calmò e, a delle sue parole, rise alzando le manine sporche di polvere marrone. Quella doveva essere la madre. L’avevo sempre immaginata come una donna grande e forte che nutriva i figli e li osservava crescere dall’alto. Ma quella era la mia realtà. Non quella degli Originari. In natura una madre era una donnina come me, che si occupava di chi aveva il suo stesso corredo genetico, ed era per questo che vivevano. Che vita era la mia, senza una famiglia? Decisi allora. Andrò a conoscerli. Chiederò loro di non uccidermi. Il mio dna è uguale al loro, non potranno odiarmi. Cominciai a vagare per le vie della città, chiedendo ai passanti informazioni sull’ubicazione della casa che cercavo. Alla fine la trovai. Bussai al grosso portone bianco, e aspettai. Mi aprì un uomo alto e magro, sconvolto.
«si?» si limitò a dire, guardandomi negli occhi.
«sono Mira, vengo per...»
«Sei amica di Giò?» mi interruppe.
«Sì» mi affrettai a dire. Forse si faceva così quando si doveva entrare in una casa di Originari. L’uomo si spostò dalla soglia e mi fece cenno di entrare. Nessuna traccia dei lunghi corridoi a cui ero abituata. Dalla porta che conduceva all’esterno si giungeva direttamente a una stanza grande quanto tre uffici, con un divano beige, due poltrone dello stesso colore e un tavolino di vetro. Sul pavimento, una bambina scarabocchiava su un foglio bianco. «accomodati» mi invitò l’uomo, indicandomi una delle due poltrone. «Giò ha bisogno di un cuore» cominciò a dire senza che gli chiedessi niente «Ha avuto un infarto. Il colesterolo, dicono» si coprì gli occhi con la mano destra e compose dei cerchi in aria con l’altra.
«Mi avevano detto ci fosse un cuore disponibile, una donatrice, ma ora sembra ci siano dei problemi» cominciò a singhiozzare. Rimasi pietrificata. Non avevo mai provato dolore per la perdita di qualcuno. Era possibile? Che cosa assurda. Decisi di parlare.
«Sono io la donatrice» affermai cordialmente, «Sono venuta qui per chiedervi di risparmiarmi». L’uomo alzò il viso e mi fulminò con lo sguardo. Si alzò e si avventò su di me, tirandomi per un braccio.
«Vai via!» urlò «Come ti permetti di venire qui a sparare simili cazzate in un momento del genere? Da dove sei scappata? Da un manicomio? Chiamo subito la polizia».
«Aspetti! Non dico stupidaggini, sono il Clone di sua moglie, mi chiamo Mira, sono scappata dal laboratorio per salvarmi, volevano donare il mio cuore a lei. Le chiedo di risparmiarmi». L’uomo, forse spaventato dalle mie parole, forse meravigliato dalla mia freddezza, si avvicinò a me in modo molto più discreto. Mi fissò a lungo negli occhi, mi toccò i capelli, mi prese la mano e rivolse il mio palmo verso l’alto. La mia voglia nel polso lo fece sussultare. Si allontanò di scatto.
«Non è possibile» sentenziò «Non è legale clonare le persone».
A quelle parole non riuscii a trattenere le risate. Non potevo credere alle mie orecchie. Illegale? Era inconcepibile accettare il fatto che gli uomini ignorassero l’esistenza delle enormi fabbriche umane presenti nel mondo. Com’era possibile?
L’uomo parve scandalizzato dalla mia risata. Continuava a fissare i miei occhi in silenzio. Ne approfittai per chiarire la situazione. Raccontai di com’ero nata, del motivo della mia esistenza, della fuga disperata dal laboratorio, della gioia di correre contro vento, del sapore della vita. I suoi occhi stanchi sembravano capire le mie parole, pur senza accettarle. Vidi le lacrime rigargli il viso.
«La bambina non sa niente» si limitò a dire, «Speravo di doverle dare solo la notizia del rientro a casa della mamma dopo il trapianto. Non sarò io ad ucciderti. Vai». Si coprì di nuovo gli occhi con il palmo della mano. Uscii da quella casa con l’amaro in bocca. I miei fratelli ed io nel laboratorio ci sostenevamo a vicenda. Ma eravamo a conoscenza del nostro destino. Nessuno ha mai pianto per un fratello perso. Maurice me l’aveva detto: gli uomini vivono nella speranza di non morire mai. Pensavo scherzasse, ovviamente.
Invece era proprio così. Quel giorno passeggiai scrutando il cielo, di un azzurro così profondo e infinito che faceva quasi paura. Forse era l’unica cosa che non finisse mai? Restai nelle vicinanze dell’unica abitazione che conoscevo. Quando uscirono, lui e la bambina, li seguii furtivamente. Si recarono in un grosso edificio molto somigliante al laboratorio dov’ero nata. Decisi di entrare anch’io. Forse lì avrei visto la mia Originaria. All’entrata dell’edificio l’uomo mi vide e per un attimo si immobilizzò. Poi mi diede le spalle indifferente e continuò il percorso. Lo seguii lungo tutta la corsia. Arrivammo in una stanza poco più piccola del soggiorno di Giò. Da una vetrina grande quasi quanto una parete, vidi lei. Più che la mia copia sembrava mia sorella. Dal vetro potei vedere solo qualche tratto del suo viso. Era molto più grossa di me, i capelli tinti di rosso. Capii perché suo marito non era riuscito ad accorgersi della somiglianza. Una mascherina sul viso per farla respirare, un’infinità di tubicini infilati in quel corpo così debole. La bambina appoggiò le mani sul vetro e cominciò a chiamare la madre con voce colma di speranza. Il padre riusciva solo ad abbracciarla. La sua voce, soffocata dalle lacrime, non poteva spiegare alla figlia cosa stava accadendo.

Questa era la famiglia? Un insieme di individui convinti di non morire mai, e che si disperano quando invece scoprono che non è così? Qualcosa di inconcepibile, di immensamente insensato, che va contro ogni legge naturale. Eppure così dolce.. Doloroso, ma dolce.
Chi avrebbe pianto per me? La mia famiglia, se potevo chiamarla così, conosceva il mio destino. I miei fratelli non sarebbero venuti a salutarmi da dietro un vetro, consapevoli che tanto non mi sarei accorta di loro.

Fu così che decisi. Era ormai quello il mio destino. Diedi l’ultimo addio alla vita, forse l’unica che mi avesse mai guardato con gli occhi di una madre.

2 commenti:

  1. Bello! Mi ricorda un po' "Non Lasciarmi" di Kazuo Ishiguro, l'hai letto? Secondo me è un romanzo stupendo!
    Se ti va, passa dal mio blog, ne sarei felice! =)
    http://guardandopiuinla.blogspot.com/

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  2. Ciao! Grazie! No, non l'ho letto! Magari se lo becco in libreria ci faccio un pensierino! Bacio :)

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